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Purché non diventi una questione di principio

Giovani italiani e rally che contano: quanto senso ha il dibattito tra generazioni rallystiche?

Niente di nuovo, sia chiaro. Alla fine i rally sulle “polemiche da bar” ci hanno costruito una storia e anche in questo caso non si sta facendo eccezione.

Il tema? I giovani piloti italiani che fanno più o meno bene nei rally contano. Sempre lui, anche in questo caso.

Una storia trita e ritrita che, anche in questo periodo dove qualche soddisfazione ce la stiamo togliendo, non manca di tenere banco e decuplicare opinioni su opinioni (più o meno richieste). Un passaggio quasi obbligato per tutti coloro che, muniti di tricolore sul finestrino posteriore, provano a saltare la recinzione italica per andare a confrontarsi con gare e piloti di altre nazioni.

Senza entrare nel merito di chi ha detto cosa, dal mio punto di vista ci sono alcuni aspetti che vanno considerati per cercare di dare un senso a tutto questo vociare, per non sfociare nel becero e poco costruttivo.

Le classifiche e gli albi non ammettono interpretazioni

Partiamo dalle basi e dalle evidenze principali. Da sempre i rally sono fatti di categorie a cui è possibile iscriversi e che generano delle classifiche. Chi sceglie di starci compete, altrimenti corre per altri obiettivi o con altre logiche. Dato di fatto. Punto.

L’esempio lampante è la vittoria di Roberto Daprà in Sardegna. Nessuno ha mai detto che è stato il più forte in Rally2 o che Oliver Solberg non sia stato più veloce. Abbiamo gioito (e tanto) per la vittoria della classifica a cui il pilota italiano era iscritto e gli altri no.

Oggettivo. Niente da interpretare.

E lo stesso vale per Roma con Andrea Mabellini che finisce secondo, cinque piloti italiani finiscono nei primi sei in una gara che vale per il campionato europeo di rally quando nel 2024 ci mettevamo due veterani e nessun giovane, così come nel 2023 e più o meno in tutte le edizioni precedenti.

C’erano già questi giovani in quelle edizioni ed erano ben lontani da podi raggiunti o sfiorati.

Parlare di progresso e miglioramento non rientra nel campo dei pareri. Concetto semplice e basilare: i fatti sono una cosa, le opinioni un’altra.

Il diritto di critica

Naturalmente chiunque è libero di dire la propria di fronte ad una prestazione sportiva. Per certi versi fa parte del gioco e serve anche a mantenere viva la fiammella dei rally, sempre più fiacca e povera di contenuti interessanti.

Nella storia dei rally di casa nostra c’è sempre stata una sorta di giuria che viene dagli anni d’oro che, pur rivendicando sempre una certa centralità e riflettori addosso, si è spesa per cercare di dare il proprio contributo verso le nuove generazioni, mettendo a disposizione la propria esperienza. Tanto con attività di coaching, quanto esprimendo senza filtri il proprio parere, a volte con cognizione di causa ed altre inciampando nell’errore di confrontare epoche di rally non troppo lontane ma distanti anni luce in termini di condizioni e contesto.

Dinamiche normali in ogni ambito sportivo che “ci stanno” e che a volte possono fungere da stimolo per chi è direttamente coinvolto. Restando sempre nella condizione che tutto si svolga nelle piena buona fede e senza alcun doppio fine.

Quando non va più bene?

Volendo provare però ad affrontare il tema a trecentosessanta gradi, è importante però evidenziare anche quando si passa il segno e si sconfina in azioni inutili e controproducenti.

Già perché quando si ha a che fare con giovani ragazzi (perlopiù non professionisti) bisognerebbe avere la delicatezza di capire dove il diritto di critica finisce ed iniziano le questioni di principio o, ancora peggio, la preferenza personale che tracima nell’anti-tifo/partito preso.

A quel punto vengono meno l’oggettività, il parere costruttivo, l’utilità. Il senso.

Diventa solo un modo per mantenere accesa la luce su chi parla (col desiderio di farsi ascoltare da sempre più gente) e non sul tema che, a mio avviso, dovrebbe restare sempre al di sopra di chi vuole per dare il proprio contributo. l rischio è il contraccolpo emotivo su chi in macchina ci va, oltre ad un discreto spreco di energie utili e che andrebbe convogliate su ben altro.

Ah, ci sarebbe poi un altro aspetto che penso valga qualcosa.

Sostenere un connazionale, aldilà di ogni classifica ed interpretazione, ho sempre pensato fosse la norma. Leggo e seguo siti belgi, finlandesi, francesi e di altre tante nazioni ed è palese il desiderio di dare risalto ed importanza a chi porta in gara la propria bandiera. Che sia iscritto ad una categoria oppure no, che arrivi primo o ultimo, conta il giusto.

Si chiama spirito di appartenenza e può trasformarsi in benzina per giovani che ogni weekend provano a dire la loro con un volante tra le mani e con la nostra bandiera appiccicata su una presa d’aria.

Ma questo è un mio personalissimo parere e, come tanti altri, lascia il tempo che trova.

 

Foto: Gianmarco Gabrielli
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