Matteo Fontana: “All’ultimo bivio in Giappone ho capito che ero campione del mondo”
Intervista a tutto tondo con il giovane pilota italiano campione del mondo WRC3 2025
Pochi giorni fa, sulle strade bagnate del Rally del Giappone, Matteo Fontana ha chiuso un cerchio: stagione da martello, gestione da pilota maturo ben oltre i suoi anni e il titolo WRC3 portato a casa con lucidità e sangue freddo.
Con lui abbiamo ripercorso gli ultimi metri della power stage, la gestione di un rally in cui l’obiettivo non era andare più forte degli altri ma non sbagliare mai, il ruolo delle gare italiane nel suo percorso e i programmi per il futuro. Con uno sguardo chiaro: confermarsi nel Mondiale e provare a riportare un po’ più di Italia dentro (e intorno) ai rally.
“Gli ultimi chilometri sono stati un’esplosione di emozioni”
Partiamo dalla fine: gli ultimi chilometri della PS20 del Rally del Giappone. Cosa ti è passato per la testa quando hai capito che il titolo era tuo?
Matteo Fontana: Più che gli ultimi chilometri, sono stati proprio gli ultimi metri. Ho affrontato tutta la gara con la stessa mentalità, cercando di restare concentrato al massimo, soprattutto sull’ultima prova: era il momento in cui era più facile fare un errore per l’emozione.
Pioveva, c’era tanta acqua, grip bassissimo, condizioni davvero complicate. Noi però siamo riusciti a rimanere lucidi fino alla fine. Quando ho fatto l’ultimo bivio a sinistra, a circa 50 metri dall’arrivo, lì ho realizzato davvero cosa stava succedendo: in quel momento capisci che sei campione del mondo.
È qualcosa di enorme, ma non lo realizzi tutto insieme. Ti arriva a ondate. Giorno dopo giorno, parlando con le persone, gli amici, i tifosi, lo senti crescere dentro. Questo weekend a Monza tantissima gente veniva a farmi i complimenti per il Giappone e per il Mondiale: sono cose che ti fanno sentire orgoglioso al massimo.
Correre “piano” è più difficile di quanto sembri
Da fuori sembra che la vera difficoltà in Giappone non fosse “fare il tempo”, ma portare a casa la gara senza sbavature.
Matteo Fontana: Esatto. Fortunatamente non avevamo la pressione del “devo vincere per forza”. Non serviva per forza il primo o il secondo posto per chiudere il mondiale: eravamo in quattro di classe, a noi bastava un quinto posto. In pratica, avremmo potuto anche ritirarci il venerdì o il sabato e rientrare in super rally, a patto di non danneggiare seriamente la macchina.
Venerdì e sabato, quindi, ero più tranquillo mentalmente: se aprivi una ruota o facevi un piccolo errore, non era la fine del mondo. La domenica invece bisognava arrivare in fondo, punto. E lì è diventato complicato proprio perché dovevamo andare “piano”.
Quando vai forte le prove ti sembrano più veloci, scorrono. Quando sei lì solo per arrivare, senza attaccare, sembrano infinite. Ogni chilometro dura di più e ti trovi a passare tanto più tempo in macchina. Però era l’unico modo per portare a casa quello per cui avevamo lavorato tutto l’anno.
L’esperienza di questi anni: ogni chilometro ha fatto la differenza
Negli ultimi anni hai corso tanto, su fondi e gare molto diverse. Quanto ti ha aiutato tutta questa esperienza nella gestione di una gara “a tema gestione” come il Giappone?
Matteo Fontana: Tantissimo. Ogni gara ti lascia qualcosa, sia a livello di velocità che di gestione. Quando devi amministrare un vantaggio minimo – dieci secondi, quindici – devi attaccare forte ma senza andare oltre il limite, senza prendere rischi inutili.
Le gare dell’Italiano, che per noi sono soprattutto esperienza, sono state fondamentali: lì spesso entriamo per attaccare al massimo, senza guardare troppo al risultato finale, e questo ti insegna fin dove puoi spingerti. Poi, quando ti ritrovi nel Mondiale in una situazione in cui devi recuperare o difendere qualcosa, sai dove si trova il tuo limite e quanto puoi avvicinarti.
Ho la fortuna di stare in macchina tanto, su strade e terreni molto diversi tra loro. Avere un pacchetto di esperienza così ampio è fondamentale nel Mondiale. Ogni chilometro che ho fatto fino ad oggi è servito e sono convinto che ogni chilometro che farò continuerà a essere utile in futuro.
Il ruolo del copilota: “Con Ale possiamo sdrammatizzare e tenere bassa la pressione”
Una delle tue caratteristiche è la stabilità dell’equipaggio: giovane sì, ma con un asset ben definito da tempo. Quanto è stato importante questo aspetto nel gestire la pressione?
Matteo Fontana: Tantissimo. Il fatto che il mio navigatore sia il mio migliore amico fa una differenza enorme. Con Alessandro (ndr. Arnaboldi) ci conosciamo dal 2017, quindi da otto anni: sappiamo come siamo fatti, sappiamo come parlarci, come sdrammatizzare e come scaricare un po’ di pressione quando serve.
Corriamo insieme, in pratica, dalla fine del 2021, a parte una gara che ha saltato per la maturità e la parentesi con Nicola nel 2023. All’inizio non potevamo correre insieme per il discorso patente: essendo neopatentato non potevo guidare la macchina nei trasferimenti, quindi avevo bisogno di un navigatore più grande. Poi, presa la BE, abbiamo iniziato il nostro percorso e da lì non ci siamo più mollati.
Ale lavora tantissimo per questo progetto, cresce gara dopo gara e, secondo me, arriverà presto ai livelli top dei navigatori italiani. Io già oggi lo considero uno di loro: è sempre più completo, preciso, affidabile. Avere uno così al tuo fianco, in un mondiale, vale tantissimo.
Dove è girata la stagione: da Montecarlo al “brivido” del Cile
Se dovessi scegliere i momenti-chiave di questa stagione mondiale, quali metteresti sul tavolo?
Matteo Fontana: Secondo me è stato un percorso costruito gara dopo gara. Già Montecarlo, chiuso secondi, è stato un grande segnale. Poi la Svezia, la prima volta lì con la Rally3, in mezzo ai piloti dello Junior che avevano già tanta esperienza su neve con quella macchina. Per me era tutto nuovo: sì, avevo corso la gara, ma con il 208. Passare a un 4×4 cambia parecchio.
Il primo giorno abbiamo fatto un po’ di fatica, poi dal secondo in poi abbiamo iniziato ad andare forte. Il secondo giorno, dal migliore di giornata, ho preso dieci secondi facendomi anche un testacoda: quindi eravamo lì. L’ultimo giorno dovevo solo portare a casa il secondo posto per i punti, ed è quello che ho fatto.
La vittoria in Sardegna, in casa, è stato un altro step mentale: da lì abbiamo iniziato a dirci “ok, è fattibile”. Sapevamo che le trasferte extraeuropee – Paraguay e Cile – sarebbero state decisive.

In Paraguay abbiamo gestito bene, in Cile è stato un po’ più “con brivido”: un problema alla wastegate ci ha fatto perdere oltre due minuti. Lì abbiamo dovuto cambiare marcia, attaccare forte, ma sempre restando appena sotto il limite. Volevo vincere la gara, ma sapevo che non potevamo buttare via tutto per un errore. Alla fine ce l’abbiamo fatta e, dopo quelle due vittorie, ci siamo detti chiaramente: “Adesso il Mondiale è davvero alla nostra portata”.
Poi restava da capire cosa avrebbe fatto Taylor, se si sarebbe iscritto in Europa Centrale e in Arabia Saudita. Quando abbiamo visto che in Arabia non c’era e siamo arrivati in Giappone sapendo che “bastava arrivare”, ci siamo detti che doveva essere il nostro weekend. Ho cercato di non pensarci troppo, perché se ti costruisci il film in testa rischi di perderti di concentrazione. E invece siamo rimasti lucidi fino all’ultimo CO.
Perché le gare italiane restano una palestra fondamentale
Torniamo all’Italia. Quest’anno ti abbiamo visto spesso anche al volante nel Terra, con una macchina “più piccola” a far segnare tempi interessanti in mezzo alle grandi. Quanto pesa questa esperienza in ottica mondiale?
Matteo Fontana: Tantissimo. Le gare italiane, in generale, sono più lente rispetto a quelle del Mondiale, anche se qualche rally lento nel WRC c’è. Le nostre strade però sono molto tecniche: è il motivo per cui tanti stranieri vengono a correre qui.
Per i finlandesi, ad esempio, spesso l’Italia è una base: fai tanta tecnica nel lento, impari a far lavorare bene la macchina, a gestirla al 100%. Una volta che hai quella base, andare forte nel veloce è più facile rispetto a chi parte subito solo da strade veloci.
Noi le gare italiane le “usiamo” proprio per questo: attaccare al massimo, capire dov’è il limite e allenarci a starci vicini senza oltrepassarlo. Quando poi ti ritrovi nel Mondiale a dover recuperare, come in Cile coi due minuti da rimettere a posto, puoi passare alla “modalità Italia”: attacchi forte, ma resti sempre quel filo sotto la soglia del rischio. Così guadagni tanto, ma non mandi all’aria il campionato.

2026, 2027 e oltre: confermarsi nel Mondiale e salire di categoria
Veniamo al futuro: con un titolo in tasca, cosa ti aspetta adesso?
Matteo Fontana: Nel 2026 correremo ancora con la Rally3 nel Mondiale, con un programma da sette gare: le cinque dello Junior, più Montecarlo e Arabia Saudita. L’obiettivo è chiaro: provare a rivincere il titolo, ma soprattutto essere i più veloci.
Vogliamo diventare l’equipaggio da battere, il punto di riferimento per tutti. Non mi basta aver vinto una volta: voglio confermarmi dimostrando che non è stato un caso.
In parallelo, in Italia inizieremo il percorso con la Rally2, in ottica 2027. Il calendario non è ancora uscito, quindi non sappiamo esattamente quali gare faremo, ma l’idea è di correre sia su terra che su asfalto per imparare a sfruttare la macchina e portarla al limite. Se tutto va come deve, nel 2027 il passaggio in Rally2 avverrà anche nel Mondiale.
Stessa mentalità, che sia WRC o Campionato Italiano
A livello mentale, quanto è complicato alternarsi tra Mondiale e campionati nazionali, contesti enormi e gare più “piccole”?
Matteo Fontana: Dal punto di vista della mentalità, per noi non cambia nulla. Che sia una gara del Mondiale o una dell’Italiano, la affrontiamo sempre come se fosse una prova del WRC: stessa preparazione, stessa serietà, stessa concentrazione in prova speciale.
Quello che cambia è la complessità organizzativa: un rally dell’Italiano, di solito, ha tre o quattro prove che si ripetono e lo prepari più in fretta. Un Mondiale può avere dieci prove diverse o più, quindi richiede molto più lavoro a monte su note, video, ricognizioni e strategia. Ma l’approccio, quando chiudi il casco, resta identico.
I grazie e un sogno: “Vorrei essere un po’ il Sinner del rally”
Chiudiamo con i ringraziamenti. A chi va questo titolo?
Matteo Fontana: I grazie sono tanti. Il primo va alla mia famiglia: senza di loro non potrei nemmeno sognare di fare questo sport, né tantomeno un Mondiale. Il loro supporto è qualcosa di enorme e gliene sarò sempre grato.
Poi c’è Ale (ndr. Arnaboldi, il suo amico navigatore): crescere insieme, gara dopo gara, è bellissimo. Lavora tantissimo, fa un lavoro incredibile e sono convinto che arriverà presto ai livelli più alti dei navigatori italiani.
Devo ringraziare Paolo Andreucci, il mio coach, che ci supporta e ci guida da sempre, me e Ale, in tutto il progetto. La mia ragazza, che mi sopporta e supporta nonostante io sia spesso via: non è affatto scontato. E poi tutti gli amici, le persone a cui voglio bene, e i fan.
Il rally è bello anche e soprattutto per loro: ogni volta che qualcuno ti saluta, ti fa il tifo, ti ferma per un complimento, ti dà una carica pazzesca. E di quella carica c’è un bisogno enorme, perché abbiamo bisogno di far crescere il movimento.
Mi piacerebbe, nel mio piccolo, riuscire a fare un po’ quello che Sinner sta facendo per il tennis: avvicinare più gente possibile ai rally. In Italia, da quando Lancia è uscita dal Mondiale, la passione generale per i rally è un po’ calata. Adesso che il marchio sta tornando e che un italiano porta a casa un titolo, spero davvero che possa essere una buona combinazione per riportare l’attenzione su questo sport.
Più italiani ci saranno a correre, più gente verrà sulle prove a guardare, più il nostro mondo crescerà. E il mio sogno è esserci dentro, da protagonista.
