Irene Saderini e la sua Dakar: “Una livella incredibile ed esperienza unica che ha cancellato tutti i miei pregiudizi”
Intervista con la giornalista sportiva e produttrice che si è cimentata nella durissima edizione 2025 del raid più celebre al mondo

Irene Saderini, nata a Bolzano il 5 aprile 1985, è stata una giornalista che per un periodo ha seguito il mondo dei motori. Ha seguito il Motomondiale, la F1, la Superbike e Formula E per Sky e Mediaset. Da qualche anno ha una sua casa di produzione con la quale ha portato al Festival del Cinema di Venezia anche il film documentario su Fabrizio e Gioele Meoni che ha come sfondo la Dakar, il titolo è “Nel nome del padre”.
Appassionata di sport estremi, viaggi e tutto quello che possieda un motore a scoppio, produce il programma “Motors” su Nove, che riparte questa primavera.
Nel 2025, ha partecipato alla Dakar come copilota nel camion numero 903, ma è stata costretta al ritiro dopo la quarta tappa a causa di problemi meccanici. Per giorni abbiamo seguito i contenuti che ha condiviso nel suo account Instagram e tramite il magazine online MOWMAG. Ed ora è qui con noi per raccontarci questa fantastica esperienza.
Ciao Irene, ci fa molto piacere averti qui con noi su Rallyssimo a parlare di Dakar. Partiamo dalla fine, così tracciamo un bilancio: cosa è successo e come è stato interrompere l’esperienza così presto?
Interrompere così presto è stato un po’ come una “sveltina”, nel senso che prologo e quattro stage sono davvero pochi per venire via dalla Dakar con un po’ di esperienza. Le aspettative erano quelle di affrontarla con resilienza e soffrire. Forse non abbiamo sofferto abbastanza. Abbiamo avuto un guasto meccanico e un incidente che hanno compromesso il mezzo. Inoltre, il nostro meccanico Alessio si è schiacciato due vertebre ed è ancora in ospedale. Non ci sarebbe stato modo di continuare. Abbiamo cercato in tutti i modi di rimettere in sesto il veicolo, ma la situazione era troppo compromessa.
Un vero peccato. Mi interessa molto tutto ciò che ruota attorno alla Dakar, un mondo che si può vivere solo andandoci. Mi ha colpito quello che hai raccontato su MOWMAG. La Dakar sembra una sfida con se stessi, una storia personale che ognuno vive e racconta a modo proprio. Qual è stato il tuo approccio, la tua storia nella storia?
Credo che, a parte 15-20 piloti professionisti, tutti gli altri concorrenti affrontano la Dakar come una sfida personale. La sfida con se stessi credo sia la cosa che ci riguarda tutti. É la cosa più sensata. Per me è stato un modo per tornare a gareggiare dopo tanto tempo, per misurarmi con quelle persone con cui ho lavorato nel motorsport e che non mi hanno mai preso troppo sul serio. Era anche un modo per dimostrare che, pur essendo donna, posso fare quello che fanno gli altri. Questa è stata una spinta importante, soprattutto per superare i pregiudizi che spesso circondano il motorsport al femminile. E poi era anche un modo mio per dire lo posso fare anch’io. Sono qua anch’io con voi e lo posso fare anch’io.
La Dakar in Arabia Saudita è un mondo pieno di contraddizioni: il motorsport in crisi che si prodiga per spostarsi in un luogo così ricco, i marchi che fanno fatica ma alla Dakar vogliono esserci tutti. Un approccio culturale complesso verso le donne. Come hai vissuto tutto questo?
La mia esperienza mi ha insegnato a non confondere la politica di un paese con le persone che lo abitano. In Arabia Saudita ho trovato persone rispettose, pronte ad aiutare. Certo, ci sono contraddizioni, ma non dovremmo sovrapporre il governo alle persone. Ad esempio, ho trovato persone locali molto disponibili, anche in situazioni quotidiane come fare rifornimento. Ho ricevuto un sostegno genuino, più di quanto mi aspettassi. Certo, alcune situazioni sono ancora complesse, ma ho trovato più apertura di quanto immaginassi. Ho avuto modo di conoscere alcuni ragazzi perché avevano la mia età, rappresentanti della FIA dell’Arabia Saudita, che mi hanno chiesto come mi trovavo, come stavo, se avevo bisogno di qualcosa. Si è chiacchierato a livello di cultura, di regole, e devo dirti la verità, con molti molti molti meno pregiudizi delle chiacchiere che io faccio in Italia con amici e colleghi che si occupano di moda.
Questo è un punto di vista interessante. La natura della Dakar sembra proprio quella di mettere tutti sullo stesso piano alla fine.
Esatto. Anch’io avevo pregiudizi sulla nuova Dakar, ma è durissima. Le tappe sono estenuanti, con 800 chilometri al giorno e pochissimo riposo. L’organizzazione ASO ha saputo mantenere alta la difficoltà, sfruttando la loro enorme esperienza per creare percorsi che mettono alla prova anche i migliori. Ogni momento è una prova, soprattutto durante le tappe marathon, dove non c’è assistenza esterna e devi fare tutto da sola. Siccome si continua a dire che non è più la Dakar di una volta, hanno deciso di farci cambiare idea in modo semplice: ammazzandoci di chilometri.
E con la tappa Marathon da 48 ore subito dopo un paio di giorni…
Abbiamo dormito in tenda, nel deserto. Era una situazione surreale: attorno a noi c’erano i generatori che facevano rumore e il cielo stellato che sembrava quasi avvolgerci. É stato un momento magico, uno di quelli che rendono la Dakar speciale. Certo che c’è sempre un sapore di nostalgia per l’Africa. LlAfrica e l’Africa, non ci prendiamo in giro. Ma starei abbastanza cauta nel dire che la Dakar non è quella di una volta.
Un altro aspetto che trovo molto affascinante è il bivacco, dove tutti, dai privati ai piloti ufficiali, condividono gli stessi spazi.
È vero, e questa è una delle cose più belle della Dakar. Tutti, indipendentemente dal budget o dall’esperienza, mangiano lo stesso cibo, dormono nello stesso bivacco, respirano la stessa polvere. C’è qualcosa di epico nel condividere una cena di “cibo di merda” – scusa il termine – accanto a piloti leggendari. È un’esperienza che ti fa sentire parte di una comunità unica.
Vista da fuori la Dakar di oggi sembra più tecnica e complessa, mentre una volta era più avventurosa. Sono cambiate le macchine, le tecnologie. D’altronde anche il motorsport in generale si è evoluto. La Dakar di oggi è tecnica e complessa, mentre una volta era più avventurosa.
Sì, oggi i mezzi sono molto più avanzati. Una volta bastava coraggio; ora serve una grande preparazione tecnica. La Dakar è diventata una gara più strategica. Ricordo che durante una speciale ho dovuto prendere decisioni critiche per salvaguardare il mezzo, ed è stato proprio in quei momenti che ho compreso la differenza rispetto al passato. Sai, sono una nostalgica: penso spesso a come erano i rally una volta, con il mitico Deltone che solcava le strade sterrate. Era tutto più puro, più diretto. Detto questo, sono molto resistente al cambiamento: se potessi, brucerei tutte le macchine elettriche! Però è importante accettare che l’evoluzione sia inevitabile e non per questo peggiorativa. E quando ho visto un mostro come Fabrizia Pons affermare che alcuni passaggi e tecnologie erano davvero complessi, ho capito che qualche errore o imperfezione potevo sicuramente permettermelo.
Quindi possiamo dire che la Dakar è e rimane una delle gare più democratiche del motorsport.
Sì, mi piace questa definizione. Puoi spendere cifre enormi, ma se non sei preparato vai fuori il primo giorno. Questo la rende speciale. Durante le tappe marathon, vedi piloti affermati dormire sotto le stelle accanto ai privati. È una livella incredibile, dove il talento e la resistenza contano più di tutto.
E adesso che si fa? Si inizia a pensare al prossimo anno?
Sono tornata a casa da pochissimo e sto ancora cercando di riprendere dei cicli di sonno normali. Ho ancora sabbia nelle orecchie, sul serio. Ti dico molto probabilmente sì, ma voglio darmi del tempo perché comunque sia, soprattutto facendola, ti rendi conto che non è proprio uno scherzo. Quindi voglio proprio darmi il tempo di capire se e come rifarla. Se posso farla meglio di come l’ho fatta, se esiste un mezzo giusto per poter dire: ok, è stata una fatalità. Potrebbe succedere ancora e forse non me la sento più, non ho più voglia. Però diciamo che la voglia c’è. Devo un po’ chiarirmi le idee.
Ho capito bene che non è solo una gara, è qualcosa di molto più importante. E che lo spirito della Dakar, quello che ti fa sognare, che attraversa i popoli, non è per niente morto.
Quindi sto un po’ pensando, se mai dovessi rifarla, a una chiave per farlo. Almeno per quello che riguarda me ed i miei valori. Tornarci dandogli un senso. Andare alla Dakar solo per fare la gara è qualcosa che puoi fare in modo ingenuo. Perché poi quando sei là ti si rovescia un vagone di cose addosso.
Grazie mille, Irene. In bocca al lupo per tutto!
Grazie a te. Crepi il lupo!