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7 MIN

Montecarlo. Quando il rally ha sangue blu

Una gara speciale che ha radici antichissime

Quando, nell’anno di grazia 1297, il patrizio genovese Francesco Grimaldi raggiunse il largo di Port Hercules e prese la rocca di Monaco utilizzando il tranello di camuffarsi da umile frate per farsi aprire il portale – proprio da questo momento, meritandosi il soprannome di “Malizia” – nessuno, tra i cronachisti dell’epoca, parve associare il fatto a qualcosa di più rilevante d’un particolare, giusto il merito di un cenno dentro un paragrafo d’uno di quei manoscritti che, durante il Medioevo, narravano le gesta d’imperi, regni, guerre e armate.

Nessuno avrebbe potuto immaginare che quello che pareva un puntino d’irrilevante significato nel quadro delle potenze del periodo, avrebbe generato una longevità esistenziale talmente salda da raggiungere brillantemente i tempi di questi giorni.

Come davvero nessuno avrebbe immaginato che, nel 1911, proprio in questo luogo e per volontà del suo monarca, Alberto I Grimaldi, uno degli ultimi assoluti del suo tempo in Europa, sarebbe stato inaugurato uno dei primi avvenimenti automobilistici a carattere internazionale della storia, quello che, un giorno, sarebbe diventato, dal nome del suo capoluogo, una delle tappe più intriganti e prestigiose del massimo campionato di rally: Monte-Carlo.

Quel primo episodio teneva la propria ragione nella passione che il Signore di Monaco di quel tempo portava ai motori e alle sfide della velocità su quattro ruote, anche se, a dirla tutta, era questa solo una delle diverse passioni che l’aristocratico francese ebbe a nutrire nell’arco della propria esistenza.

D’altra parte, l’orografia del territorio monegasco consentiva di tracciare percorsi che, per la loro varietà e, a causa di diversi tratti, per il loro grado di decisa difficoltà, risultavano idonei alle esigenze tipiche di una gara degna di attirare piloti di rango e di motivare ad interesse anche l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Un’operazione, dunque, che dava pace all’interesse sentimentale del Principe per quella automobile che, sempre di più, usciva dalla fase pioneristica, ingenerando entusiasmi crescenti anche nella sua inclinazione sportiva. Senza contare i riflessi di popolarità che una manifestazione di questo genere avrebbe comportato per la minuscola monarchia. E così fu, infatti. E così è a tutt’oggi, infatti.

Non a caso, dal 1973, ossia da quando il Campionato mondiale di rally fu ufficialmente istituito, la tappa d’apertura è fissata proprio a Montecarlo. Una sorta d’atto dovuto e onorante, considerando, come dire, l’aristocrazia del luogo, oppure, a leggerla in altro modo, un debutto ricercatamente colmo di significati, primo fra tutti quello della durezza naturalmente insita in questa specie di declinazione dell’automobilismo sportivo, visto che tutte le frazioni della gara sono concentrate nella seconda parte di Gennaio, uno dei mesi dell’anno più ostici per via delle aspre condizioni meteorologiche.

Inizialmente, quasi a voler marcare ancor più la specialità dell’evento, si voleva che le linee di partenza – tutte con lo stesso, identico chilometraggio rispetto all’unico traguardo piazzato dentro il Principato – fossero addirittura cinque, con piena libertà di scelta da parte dell’equipaggio – anche se, invero, si tratta d’una pratica andata in disuso col passare dei primi anni.

A tutt’oggi, alcuni tratti del percorso rappresentano un’attrattiva fascinosa e calamitante, come in pochi altri casi di gare di rally. Uno di questi è quello noto come “La Bollene Vesubie – Sospel”, un tragitto che corrisponde a una Speciale che traversa alcuni paesaggi delle Alpi marittime francesi, ricchi di strette curve con vista a strapiombo e la missione parallela di mettere i brividi solo all’idea di essere affrontate alle velocità forsennate tipiche di questo genere di corse. Un altro assai simile è quello di Col Turini, un passaggio sempre all’interno dello stesso contesto montagnoso, corso, però, durante l’orario notturno. Ed è proprio tale ultimo particolare a rendere affascinante questo momento della tappa, soprattutto, poi, con la coincidenza del manto di neve o, perfino, di ghiaccio sulla carreggiata. Da una parte, per il maggiore rischio connesso alla scarsa luminosità, fattore che sfida ulteriormente il coraggio dei piloti, mettendone a dura prova le doti e la forza di volontà. Dall’altra, per via dell’effetto creato dai fasci luminosi delle vetture che paiono come traforare il buio, con la conseguenza d’una sorta di suggestivo palcoscenico vivace di luci che s’agitano di continuo nella notte, tanto per aggiungere meraviglia allo stato d’euforia, già garantito all’animo degli spettatori, dalla velocità dei bolidi in corsa.

Un fatto, sopra molti altri, basterà a rendere l’idea della percentuale di pericolosità connessa al genere di tracciato. Era il 2002 e, a Montecarlo, proprio di questi giorni, s’impazzava per le strade del Principato a bordo di automobili solo col vestito comune a quelle di serie, lanciate a velocità insostenibili per l’uomo comune, in nome di quell’adrenalina tutta particolare che solamente il rally riesce a produrre in chi guida o in chi, semplicemente, assiste. C’è un pilota ceco, si chiama Roman Kresta. Le sue mani impugnano il volante di una Skoda Octavia WRC Evo 2, una vettura a tre volumi che, di certo, non passa inosservata, ma nemmeno entusiasma più di tanto, per via della generosa mole, che, a parità d’ordine di marcia con le concorrenti, ne compromette il passo rispetto alle agguerrite, rabbiosissime avversarie francesi e tedesche. Kresta ci prova a smuovere la palude del ritmo, pigiando sull’acceleratore anche laddove i campioni più valorosi debbono contenersi. 

Così, risalendo i rudi, temibili tornanti della Statale 7 “Puget Théniers Toudon”, Kresta ci da’ dentro per quei punti da riconquistare, per quelle posizioni da riguadagnare, divorando l’asfalto curva dopo curva, infiammandosi e non demordendo, fino a che, per via della potenza eccessiva impressa alla Skoda, questa non potrà tenere più la traiettoria, finendo per sbandare e rovinare contro la barriera a costa del precipizio che costeggiava quel tratto di strada. Forse per un caso, forse per miracolo, l’Octavia non andrà oltre, rimanendo a pendere immobile sul vuoto, sotto gli occhi scioccati del mondo intero.

E’ il 2005 e, lungo il serpentone montagnoso della Statale 12 “La Bollene-Vesubie-Sospel”, i piloti WRC se la contendono sfrecciando tra i bordi della carreggiata innevati di fresco. C’è un certo Sebastien Loeb, che, alla guida di Citroen “Xsara”, domina la gara e, di lì a qualche giorno, vincerà l’edizione, confermandosi il cannibale di gloria per cui è conosciuto ancor oggi, grazie pure agli ultimi successi ottenuti nella Dakar. Dietro di lui, c’è un certo Petter Solberg, che, lontano dall’arrendersi, procede a spron battuto, navigato dall’inglese Phil Mills, a bordo di una Subaru “Impreza”. 

Improvvisamente, lungo una curva in discesa, la vettura traborda, scivolando, sbattendo sul muretto di cinta e rimettendoci la gomma anteriore sinistra. Stavolta, la causa non sta però in un errore del pilota, ma nel comportamento del pubblico: su quello che avrebbe dovuto essere asfalto umido ma pulito, alcuni spettatori avevano sparso neve fresca, quel tanto che bastava per ostacolare il passaggio di chiunque, come Solberg e non solo lui. Perché, con la Subaru ferma in mezzo alla corsia, anche il suo immediato inseguitore, il finnico Toni Gardemeister, navigato da Jakke Honkanen su Ford “Focus”, dovrà arrestarsi per poi riprendere la marcia, dopo, però, aver perso secondi importanti.

Ma che, nella “Montecarlo”, l’emozione e la meraviglia dell’imprevisto tengano abitudine a farla da padrone, è testimoniato pure da una moltitudine di altri avvenimenti, che hanno costellato l’andamento di ogni Prova, producendo nostalgia ad ogni fine di corsa, proprio come accade quando i momenti di gioia hanno purtroppo termine. E non solo avvenimenti. Anche uomini, piloti di razza che hanno fatto la storia del rally, dando storia alla tappa monegasca e, da questa, ricevendo storia.

Il nome di Sandro Munari, ad esempio, è il primo che dice tanto a chi conosce l’elenco dei campioni di nazionalità italiana, e, se non è l’unico che viene in mente quando si parla della “Montecarlo”, è, di sicuro, tra quelli che si fanno se si deve ricordare l’epopea degli allori della Costa Azzurra. Già, perché sarà proprio il Drago di Cavarzere ad esaltare l’italianissimo marchio Lancia lungo gli affascinanti tornanti del Principato, dove meriterà di essere protagonista pilotando la “Stratos HF” e, con questa, vincendo la tappa monegasca nel 1972 e, poi, consecutivamente, dal 1975 al 1977.

Ma se l’Albo d’Oro ha inizio in quel lontano anno di fondazione del 1911, con Henry Rougier – poliedrico sportivo che, di professione, era titolare di una concessionaria di automobili – vincitore a bordo di una “Turcat-Mery 25HP”, è con un altro francese che Montecarlo splende di una luce che, ancora oggi, rimane integra, irradiando le pagine della storia del rally professionistico. Il nome è quello di Sébastien Loeb, l’asso alsaziano capace di vincere il palio monegasco per ben otto volte, un record che condivide con il suo connazionale Sébastien Ogier.

Due stili, quelli di Loeb e di Ogier, differenti fra loro. Loeb più passionale e creativo nella guida agonistica, Ogier più freddo nelle decisioni e sfuggente nello spirito. Ma l’uno e l’altro accumunati da quei due fattori che sono l’abitudine di commettere rarissimi errori e la stessa, inesorabile volontà a vincere.

Naturalmente, sarebbero tanti altri i nomi ai quali tributare gli onori della memoria della “Montecarlo”: l’indimenticabile Walter Rohrl, i finlandesi Henri Toivonen, Tommi Makinen, Mikko Hirvonen, il veneto Miki Biasion, il francese Didier Oriol, e, perché no, il belga Thierry Neuville, probabilmente tra i piloti più promettenti per il presente e per il futuro del WRC.

Oggi, quando si parla di rally nella sua massima espressione, il pensiero va verso tutte le tappe del WRC che, da Gennaio, si sviluppano durante l’anno solare, ma, a differenza di tutte le altre, quella monegasca è la necessaria nota d’ingresso, che l’orchestra dell’organizzazione e delle squadre in campo non possono sbagliare, perché quella che imposta il tono dell’intero campionato, un tono destinato a irradiare magia all’interno di ogni appuntamento, nel segno di quel sangue blu che scorreva nelle vene del fondatore della gara e che, ancora, continua a scorrere in ogni istante dei giorni della “Montecarlo”.

 

Photo Credit: WRC.com
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